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Airbnb evade le tasse in Italia? Quando il fisco è disfunzionale all’economia digitale.

Dopo il caso Meta/Facebook (oggetto del nostro precedente Alert “Il caso Meta e le possibili discrasie tra l’interpretazione dell’Agenzia delle entrate e quella comunitaria in tema di IT Service” del 10/5/2023), è assurto agli onori della cronaca su tutti i media generalisti un altro caso di contenzioso fiscale relativo alla c.d. “economia digitale”, relativo al maxi-sequestro di quasi 780 milioni di Euro subito da Airbnb per disposizione della procura di Milano. Gli atti del procedimento non sono noti, ma è nota la sentenza del Consiglio di Stato (n. 9188 del 24 ottobre 2023) e quella della Corte di Giustizia UE (del 22 dicembre 2022, relativa alla causa C-83/21 – cui il Consiglio di Stato aveva pregiudizialmente rimesso alcune questioni) da cui l’azione della procura e dell’amministrazione finanziaria hanno preso le mosse.

Il caso Airbnb

Il caso origina dalle contestazioni che Airbnb aveva sollevato, dinanzi al TAR e poi in appello innanzi al Consiglio di Stato, contro il regime fiscale delle locazioni brevi (D.L. n. 50/2017), le relative disposizioni attuative del 12 luglio 2017 e l’interpretazione della normativa fatta dall’Agenzia delle Entrate con la circolare numero 24/E del 12 ottobre 2017. Tralasciando numerosi ed interessanti profili giuridici che sono stati oggetto di discussione nel corso dei diversi procedimenti, vale la pena focalizzarsi in questa sede su tre questioni di immediato impatto pratico, relative alla compatibilità con il principio di libera prestazione dei servizi di cui all’articolo 56 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE) con: i. l’obbligo di raccolta e comunicazione alle autorità fiscali italiane dei dati relativi ai contratti di locazione; ii. l’obbligo di ritenuta alla fonte della cedolare secca dovuta sulle locazioni brevi; ed infine iii. l’obbligo di designare un rappresentante fiscale in Italia a carico degli intermediari che non abbiano né la residenza fiscale, né una stabile organizzazione in Italia ed intervengano nella riscossione dei canoni. La normativa sulle locazioni brevi, oggetto delle contestazioni di Airbnb, prevede infatti che chi svolge intermediazione immobiliare nel mercato degli affitti brevi, anche mediante portali telematici , deve trasmettere all’amministrazione finanziaria i dati relativi ai contratti di locazione conclusi per proprio tramite e, qualora il modello di business preveda un intervento diretto nella riscossione dei canoni, deve anche applicare una ritenuta d’imposta relativamente alla cedolare secca dovuta dai proprietari. Alert | Diritto Tributario Al fine di rendere cogente quest’ultimo obbligo, tipico dei sostituti d’imposta, la normativa prevede infine che, qualora l’intermediario sia non residente e privo di stabile organizzazione, egli debba nominare un rappresentante fiscale in Italia per adempiere agli obblighi di effettuazione e versamento delle ritenute. La Corte di Giustizia e, sulla scia di questa, il Consiglio di Stato con le sentenze sopracitate hanno ritenuto compatibili con il principio di libera prestazione dei servizi sia gli obblighi di raccolta e trasmissione all’amministrazione finanziaria dei dati relativi ai contratti di locazione, sia – qualora il modello di business dell’intermediario immobiliare o del gestore del portale telematico attraverso il quale vengono conclusi i contratti di locazione breve preveda l’intervento nell’incasso dei canoni – gli obblighi di applicazione della ritenuta per la cedolare secca. Viceversa, è stato ritenuto che l’obbligo per i soggetti non residenti e senza stabile organizzazione in Italia di nominare un rappresentante fiscale costituisca una restrizione alla libera circolazione dei servizi vietata dall’articolo 56 TFUE. L’effetto pratico delle due pronunce è stato dunque quello di confermare la natura di responsabile d’imposta dell’intermediario immobiliare che intervenga nell’incasso dei canoni, anche quando non residente e privo di stabile organizzazione, confermandone gli obblighi di operare le ritenute per la cedolare secca e versarne gli importi all’erario. È chiaro, tuttavia, che per gli intermediari non residenti e privi di stabile organizzazione, in assenza dell’obbligo anche di nominare un rappresentante fiscale in Italia, l’adempimento pratico degli obblighi di ritenuta e di versamento può trovare ostacoli operativi e complessità procedimentali, anche significative. Dalle informazioni giornalistiche, risulterebbe che il maxi-sequestro di cui è stata oggetto Airbnb avrebbe preso le mosse da una contestazione relativa alla presunta esistenza di una stabile organizzazione in Italia. È infatti più semplice, dal punto di vista operativo, muovere una pretesa nei confronti di un soggetto non residente ma con una stabile organizzazione, piuttosto che di un soggetto non residente senza presenza stabile in Italia. Se si possono sintetizzare a caldo in questo modo (e con grandissima semplificazione) i termini della questione, emergono in prima battuta due profili molto rilevanti che possono potenzialmente riguardare molti soggetti, e non solo i grandi operatori multinazionali o grandi gestori di piattaforme informatiche come Airbnb.

Sostituti d’imposta non residenti e senza stabile organizzazione in Italia.

Il primo profilo concerne lo “sdoganamento” della possibilità di imporre l’obbligo su soggetti non residenti e senza stabile organizzazione di operare una ritenuta alla fonte. Questa conseguenza dei pronunciamenti giurisprudenziali sopracitati è piuttosto sorprendente e, di primo acchito, non condivisibile. Di norma, infatti, la potestà di uno Stato di imporre obblighi strumentali alle esigenze del proprio prelievo tributario, come quello della sostituzione d’imposta, si ferma ai confini nazionali e non li travalica, non potendo in linea di principio tali obblighi gravare su soggetti non residenti e senza stabile organizzazione. Questa “espansività” della potestà normativa di uno Stato, sia pure limitatamente ad obblighi strumentali rispetto all’esercizio della potestà impositiva, è potenzialmente foriera di un aggravamento indiscriminato ed insostenibile degli adempimenti fiscali per gli operatori economici che agiscono in ambito multinazionale. È vero che la norma italiana pone l’obbligo solo a carico degli intermediari immobiliari che adottino un modello di business che prevede un loro coinvolgimento diretto dell’incasso dei canoni, ma ciò non sembra un argomento sufficiente. È facile ipotizzare che, se un simile approccio fosse seguito da una moltitudine di paesi e fosse moltiplicato su diverse fonti di reddito, le imprese dovrebbero probabilmente affrontare costi proibitivi per espandersi sui mercati internazionali. Piuttosto sorprendente è anche il rifiuto da parte del Consiglio di Stato di sollevare innanzi alla Consulta la questione di illegittimità costituzionale di questa norma. A fronte della ragionevole obiezione proposta da Airbnb, secondo cui tale obbligo comprime irragionevolmente la libertà di impresa solo di alcuni operatori economici con l’effetto di attribuire un beneficio competitivo ad altri (aggiungeremmo: nel medesimo settore economico, ma non solo) che non sono onerati da tali adempimenti, il Consiglio di Stato ha lasciato prevalere la considerazione pratica che una diversa modalità applicativa della norma impositiva rischierebbe di vanificare il conseguimento dell’interesse erariale. Pur essendo di buon senso, questa considerazione non sembra avere una logica giuridica stringente in termini di eguaglianza costituzionale. Inoltre, Secondo il Consiglio di Stato non sarebbe necessaria nemmeno la nomina di un rappresentante fiscale in Italia per l’operatività della norma, in quanto, testualmente, “L’Ente impositore […] ben potrà rivolgere le proprie pretese tributarie direttamente alla società non stabilità, fruendo, se del caso, delle procedure di collaborazione ha autorità fiscali previste dal diritto unionale e, eventualmente, dal diritto internazionale pattizio”. Anche a volere prescindere dal fatto che la cooperazione amministrativa in materia fiscale deve ancora migliorare, si potrebbero verificare situazioni nelle quali, non solo intermediari immobiliari che gestiscono piattaforme informatiche, ma anche altri operatori economici non residenti e senza stabile organizzazione in Italia che dovessero in futuro risultare assoggettati all’obbligo di operare ritenute alla fonte, vadano a stabilirsi in giurisdizioni con le quali l’amministrazione finanziaria italiana non ha procedure di collaborazione attive o non ha procedure attive che siano sufficientemente efficaci.

Gli incerti confini della stabile organizzazione dell’impresa digitale.

Il secondo profilo di riflessione attiene quindi al concetto di stabile organizzazione di un’impresa “digitale”. Come detto, probabilmente anche in ragione di taluna delle considerazioni sopra fatte, l’Amministrazione fiscale italiana ha proceduto nei confronti di Airbnb contestandole previamente l’esistenza di una stabile organizzazione in Italia, anche se risulta doveroso evidenziare che tale contestazione non sembra essere stata avanzata in nessuno dei procedimenti sopra richiamati (cui ha partecipato l’Agenzia delle Entrate) e che, anzi, le varie eccezioni giuridiche mosse da Airbnb nel corso di questi procedimenti presupponevano proprio la mancanza di una stabile organizzazione della società in Italia. È possibile – ma in mancanza di informazioni più specifiche è una mera ipotesi – che la contestazione dell’amministrazione finanziaria italiana si basi su una delle prime applicazioni di una norma domestica peculiare, che prevede l’esistenza di una stabile organizzazione in caso di “una significativa e continuativa presenza economica nel territorio dello Stato costruita in modo tale da non fare risultare una sua consistenza fisica nel territorio stesso” (art. 162, secondo comma, lett. f-bis TUIR). Pur non essendo questa la sede per commentare compiutamente questa norma, va tuttavia segnalato che si tratta di una norma potenzialmente molto ampia e che, come tutte le norme di vasta latitudine, appare di incerta e discutibile applicazione. E l’incertezza è l’elemento che più disincentiva gli investimenti stranieri perché agevola il verificarsi di situazioni come quella da cui traiamo oggi spunto e che certamente non attraggono i capitali esteri. Non resta quindi che confidare nel fatto che l’attuazione dell’ampia delega conferita al Governo per la riforma del sistema tributario costituisca l’occasione per restituire certezza di diritto, efficienza ed attrattività al nostro sistema fiscale anche per quanto riguarda la fiscalità dell’economia digitale.

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