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Bancarotta per distrazione e “indici di fraudolenza”: la business judgment rule salva dalla responsabilità penale?

Con la sentenza n. 16414 del 28 febbraio 2024 (dep. 19 aprile 2024), la Quinta Sezione della Corte di Cassazione ha ribadito la natura di pericolo concreto del delitto di bancarotta fraudolenta per distrazione (art. art 216, comma 1, n. 1 legge fallimentare, oggi art. 322 del Codice della Crisi d’impresa e dell’insolvenza), dalla quale consegue la necessità, in sede di accertamento, di una puntuale verifica dell’idoneità dell’atto di depauperamento a mettere in pericolo la garanzia patrimoniale (art. 2740 c.c.) a tutela dei creditori nell’eventualità di futura apertura di una procedura concorsuale.

Gli indici di fraudolenza.

Per condurre tale verifica, il giudice deve andare alla ricerca di “indici di fraudolenza” necessari a dar corpo, da un lato, alla prognosi postuma di concreta messa in pericolo dell’integrità del patrimonio dell’impresa, funzionale ad assicurare la garanzia dei creditori, e, dall’altro, alla proiezione soggettiva (ndr. la consapevolezza e volontà) di tale messa in pericolo”. Indici che, secondo la Suprema Corte, vanno rinvenuti, a titolo esemplificativo:

  • nella disamina della condotta alla luce della condizione patrimoniale e finanziaria dell’azienda e della congiuntura economica in cui la condotta pericolosa per le ragioni del ceto creditorio si è realizzata;
  • nel contesto in cui l‘impresa ha operato, avuto riguardo alle cointeressenze dell’imprenditore o dell’amministratore rispetto ad altre imprese coinvolte nei fatti depauperativi;
  • nella “distanza” (e, segnatamente, irriducibile estraneità) del fatto generatore dello squilibrio tra attività e passività rispetto a qualsiasi canone di ragionevolezza imprenditoriale.

In proposito, è interessante notare come nessuno degli indicatori considerati dalla Cassazione ha a che vedere con apprezzamenti sull’economicità dell’operazione in sé e per sé.

L’accento cade, invece, sull’analisi dello “stato di salute” dell’impresa, vale a dire su quali fossero le condizioni economiche e finanziarie dell’impresa nel momento della realizzazione del fatto ritenuto distrattivo. Solo attraverso questi parametri oggettivi e di contesto si potrà affermare che l’imprenditore, nel realizzare una determinata operazione, abbia consapevolmente pregiudicato la capienza del patrimonio sociale ancora prima del manifestarsi del dissesto, a scapito dei creditori.

Rispetto al criterio di ragionevolezza imprenditoriale, va, infatti, ricordato quanto affermato dalla Corte di Cassazione nella sentenza Sgaramella (Cass. pen., Sez. V, n. 38396 del 23.06.2017), che ha precisato come “la riconducibilità della condotta ad una anomala gestione dei beni dell’impresa viene in rilievo al solo fine dell’accertamento del dolo […] e non certo per operare un sindacato sull’opportunità delle scelte discrezionali dell’imprenditore, sindacato precluso anche al giudice civile”.

Le operazioni anomale o l’utilizzo dei beni per obiettivi estranei all’attività caratteristica dell’impresa non rilevano di per sé come fatti distrattivi, meritevoli di sanzione penale, ma possono, al più, fungere da spia della consapevolezza dell’imprenditore di arrecare un danno agli interessi dei creditori.

Il rapporto cronologico con il dissesto.

Il ricorso a tali indici di fraudolenza non è, però, sempre necessario ai fini dell’accertamento processuale.

La Suprema Corte precisa, infatti, che la ricerca di questi indicatori fattuali non è necessaria “ove vi sia uno stretto rapporto cronologico tra l’atto dispositivo che diminuisce la garanzia dei creditori rispetto alla successiva procedura concorsuale”, poiché, in questi casi, diviene più evidente la natura concretamente depauperativa dell’operazione e la rimproverabilità soggettiva dell’imprenditore.

Lo sforzo ricostruttivo richiesto all’interprete viene, dunque, adattato alla condotta scrutinata, alle sue caratteristiche e, soprattutto, alla collocazione temporale della stessa rispetto all’emersione dello stato di insolvenza dell’impresa. In questa prospettiva, l’accertamento andrà incontro ad una significativa semplificazione, ad esempio, per gli atti dispositivi di immediata vicinanza all’insolvenza o persino coincidenti con un conclamato stato di crisi, per i quali è la stessa collocazione nella c.d. zona di rischio penale a dimostrare l’esposizione a pericolo del patrimonio.

Aperture penalistiche alla business judgment rule?

Il sindacato giudiziale sul merito gestorio ha sempre sollevato criticità tanto in sede civile quanto in sede penale.

Sul versante civilistico, i giudizi di responsabilità degli amministratori vedono ormai cristallizzata in giurisprudenza una regola di insindacabilità delle scelte gestionali dell’amministratore che ha correttamente adempiuto ai propri doveri di diligenza nei confronti della società, sulla scorta del principio di origine statunitense della c.d Business Judgment Rule (si veda: ‘Scelte rischiose o negligenti? La Business Judgment Rule nell’azione di responsabilità degli amministratori‘).

Oggi, anche in sede penale, la Corte di Cassazione sta dimostrando maggiore sensibilità sul tema.

La pronuncia in commento conferma un orientamento che ha preso corpo nella giurisprudenza di legittimità a partire dal 2017 (Cass. pen., Sez. V, n. 17819 del 24.03.2017, Palitta, e Cass. pen., Sez. V, n. 38396 del 23.06.2017, Sgaramella). Orientamento che, valorizzando la natura di reato di pericolo concreto, pare aver finalmente colto la necessità individuare un criterio atto a distinguere tra operazioni rientranti nel fisiologico rischio d’impresa, e condotte, invece, poste in essere in presenza di concreti indici di pericolosità per le ragioni creditorie.

Questa evoluzione giurisprudenziale fa ben sperare in un’apertura alla operatività della business judgment rule anche in ambito penale fallimentare o, quanto meno, in uno sforzo del giudice penale di abbandonare la fin troppo facile tendenza di valutare qualsiasi scelta imprenditoriale a posteriori attraverso la “scura lente” del fallimento.

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