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La vendita di opere d’arte e la sottile e opinabile differenza tra “collezionista puro” e “collezionista speculatore occasionale”.

Con la sentenza 19363 del 15 luglio 2024 la Suprema Corte di Cassazione è tornata ad affrontare l’annoso tema della corretta individuazione della differenza tra “collezionista puro” e “collezionista speculatore occasionale”.

Tale differenza, lungi dall’essere meramente formale e priva di risvolti pratici, comporta la tassazione o meno dei proventi della vendita di opere d’arte da parte di privati.

In passato, il Legislatore aveva regolamentato la fattispecie all’art. 76 del D.P.R. 597/1973, prevedendo la tassazione delle operazioni poste in essere con intento speculativo. La norma disponeva testualmente che “le plusvalenze conseguite mediante operazioni poste in essere con fini speculativi e non rientranti fra i redditi d’impresa concorrono alla formazione del reddito complessivo per il periodo d’imposta in cui le operazioni si sono concluse. […] Si considerano in ogni caso fatti con fini speculativi, senza possibilità di prova contraria, […] l’acquisto e la vendita di oggetti d’arte, di antiquariato o in genere da collezione, se il periodo di tempo intercorrente tra l’acquisto e la vendita non è superiore a due anni“.

Viceversa, la normativa vigente non prevede come fattispecie impositiva la cessione di opere d’arte e oggetti da collezione da patte dei privati, con la conseguenza che in linea generale le cessioni in parola non scontano alcuna imposta.

L’eventuale assoggettamento da parte dell’Agenzia delle Entrate deve, pertanto, fondarsi sulla riconducibilità della cessione a una delle fattispecie imponibili previste dal D.P.R. 917/986 (c.d. TUIR), riconducibilità che, ovviamente, è più volte stata oggetto del vaglio della giurisprudenza che nel tempo ne ha delineato i confini.

Il caso oggetto della sentenza e i principi della Cassazione

La vicenda origina dalla cessione di un Monet, effettuata da un privato a distanza di sette anni dall’acquisto dell’opera. La plusvalenza generata dalla vendita, pari a oltre 5 milioni di Euro, era stata qualificata dall’Agenzia delle Entrate come reddito derivante da attività commerciale occasionale, dunque imponibile ai fini IRPEF ai sensi dell’articolo 67, co. 1, lettera i), del TUIR.

Tale disposizione normativa prevede, in particolare, che “Sono redditi diversi se non costituiscono redditi di capitale ovvero se non sono conseguiti nell’esercizio di arti e professioni o di imprese commerciali o da società in nome collettivo e in accomandita semplice, né in relazione alla qualità di lavoratore dipendente: […] i) i redditi derivanti da attività commerciali non esercitate abitualmente“.

Nei giudizi di merito il contribuente si era difeso sostenendo di essere un “mero collezionista privato” e di avere ceduto l’opera con il proposito di acquistarne successivamente un’altra. Mentre i Giudici di prime cure avevano accolto il ricorso del contribuente, annullando la pretesa avanzata dal Fisco, quelli di appello avevano riconosciuto la legittimità della pretesa erariale.

Nel successivo giudizio di cassazione, culminato con la sentenza in commento, la Corte si è posta nel solco dell’orientamento ribadito, da ultimo, con l’Ordinanza n. 6874/2023, ribadendo la correttezza della tripartizione giuridica ivi introdotta – e ribadita poi anche nelle due successive ordinanze nn. 1603 e 1610 di inizio 2024. In particolare, la Suprema Corte ha distinto ancora una volta tra:

  1. mercante d’arte;
  2. collezionista «puro»;
  3. collezionista «speculatore occasionale».

Secondo tale tripartizione:

  1. il mercante d’arte svolge una attività commerciale ordinaria, i cui proventi costituiscono dunque reddito d’impresa;
  2. il collezionista «puro»;
  3. collezionista il “collezionista speculatore occasionale” acquista occasionalmente opere d’arte per rivenderle allo scopo di conseguire un utile (agendo, dunque, con intento speculativo), realizzando redditi diversi derivanti da attività commerciale occasionale di cui al citato articolo 67, co. 1, lettera i) del TUIR.

Condividendo la ricostruzione operata dai Giudici di appello, la Cassazione nel giudizio qui discusso ha ritenuto sussistente l’intento speculativo, in quanto il collezionista:

  1. aveva incaricato della vendita una casa d’aste;
  2. aveva in passato concesso l’opera in esposizione a musei, attività, secondo i Giudici, evidenzierebbe la volontà di “valorizzarla” in vista di una successiva vendita, manifestando così l’“intento speculativo” (anche se, nel caso specifico, il Monet era stato prestato a un unico museo statunitense);
  • aveva realizzato una rilevante plusvalenza;
  1. aveva compiuto operazioni similari in periodi antecedenti e successivi (nonostante l’alienazione dell’opera fosse stata l’unica vendita effettuata nell’anno d’imposta accertato).

Benché non si tratti di un principio nuovo, in quanto già con la risposta all’interrogazione parlamentare n. 5-01718 del 21 marzo 2019 si era giunti a una conclusione similare, la sentenza in commento permette, tuttavia, di comprendere e inquadrare in maniera più specifica i presupposti che comportano l’assoggettamento a imposizione delle alienazioni di opere d’arte in capo a soggetti diversi dai mercanti d’arte.

Il sottile e discutibile confine tra il collezionista “puro” e quello con “intento speculativo”

I principi affermati dalla Suprema Corte e i requisiti individuati per riconoscere la tassabilità della vendita delle opere d’arte non sembrano esenti da possibili legittime obiezioni.

Ad esempio, l’intermediazione di una casa d’aste potrebbe tranquillamente essere motivata da una mera esigenza di rivolgersi a un operatore esperto per la gestione della compravendita, in grado di intercettare lo specifico mercato di riferimento dell’opera, evitando interlocutori non realmente interessati o sufficientemente competenti a riconoscere il valore e la qualità dell’opera proposta. Né appare, di per sé, significativa sia l’ammontare dell’eventuale plusvalenza sia l’aver prestato l’opera per musei o mostre. Quest’ultima condotta, difatti, difficilmente potrebbe contribuire a «valorizzare» un’opera nelle ipotesi in cui la fama dell’artista sia già di per sé consolidata (è proprio il caso affrontato dalla Cassazione che concerneva la vendita di quadro dipinto da Claude Monet). Senza tener conto, inoltre, che l’esposizione dell’opera può discendere da una molteplicità di fattori quali la richiesta diretta di un museo o dal proposito di renderla fruibile alla comunità.

Considerato che la ricerca delle intenzioni del collezionista, non può certo tradursi in un’indagine di natura psicologica e pertanto, comporta inevitabilmente che l’accertamento sia fondato su presunzioni semplici (come riconosciuto dalla stessa Cassazione), le stesse, pur dovendo essere gravi, precise e concordanti, restano sempre liberamente apprezzabili dal giudice, con la conseguenza che quello attuale è un contesto caratterizzato da una forte incertezza, tanto più pericolosa se si considera che, al superamento di determinate soglie, gli illeciti fiscali possono integrare un reato con conseguente avvio di un procedimento penale.

La legge delega di riforma fiscale

Considerato che, in assenza di una disciplina chiara sul punto, tali problematiche sono ineliminabili, risulta tanto più urgente l’attuazione della legge Delega (L. n. 111/2023) che all’art. 5, co. 1, lett. h) n. 3 ha previsto “l’introduzione di una disciplina sulle plusvalenze conseguite, al di fuori dell’esercizio di attività d’impresa, dai collezionisti di oggetti d’arte, di antiquariato o da collezione nonché, in generale, di opere dell’ingegno di carattere creativo appartenenti alle arti figurative, escludendo i casi in cui è assente l’intento speculativo, compresi quelli di plusvalenza relativa a beni acquisiti per successione o donazione, nonché esonerando i medesimi da ogni forma dichiarativa di carattere patrimoniale“. Ad oggi la norma delegata non è stata emanata.

Secondo quanto espresso anche attraverso la relazione illustrativa, la “nuova” disciplina si dovrebbe discostare sensibilmente dall’indagine dell’elemento soggettivo in capo al cedente, incentrandosi, invece, su parametri oggettivi.

La speranza è che l’attuazione di questa parte della Delega permetta di avere un quadro normativo di riferimento chiaro, nel quale vengano predeterminate per legge e in maniera oggettiva le fattispecie in cui è assente “l’intento speculativo” e nelle quali, dunque, la plusvalenza non è mai imponibile.

Quel che è certo, è che nella riforma, a differenza d quanto era previsto nella previgente normativa contenuta all’art. 76 del D.P.R. 597/1973 soprarichiamato, non sembra esserci spazio per l’introduzione di un nuovo holding period, superato il quale la cessione diventa non imponibile. Difatti, né il testo della legge, né la relazione illustrativa, contengono alcun riferimento in proposito.

D’altronde, contrariamente a quanto avviene in altre fattispecie dove è previsto un holding period – si pensi ad esempio alla cessione di immobili – nello specifico ambito del mercato dell’arte, la detenzione prolungata di un’opera d’arte, non comportando costi rilevanti, non risulta essere sintomatica di un’assenza di un intento speculativo.

Difatti, nel caso di un immobile la detenzione per più di cinque anni dello stesso comporta sicuramente il sostenimento di costi, sia di gestione che fiscali (es. IMU, TARI etc.), contrari ad un intento puramente speculativo. Nel mercato dell’arte la volontà di massimizzare il guadagno e di far accrescere il valore di mercato dell’opera potrebbe, al contrario, spingere il collezionista privato a mantenere l’opera più a lungo, cosicché la previsione di un holding period, anziché semplificare la disciplina, rischierebbe di neutralizzarne gli effetti.

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