Opinioni
Salario minimo e contrattazione collettiva: le ultime pronunce giurisprudenziali.
Recentemente la giurisprudenza si è resa protagonista di un inedito orientamento nella nota prassi di self-restraint sulla determinazione della retribuzione equa rispetto all’autonomia collettiva. Sulla scia di vicende non solo giuslavoristiche che hanno riguardato alcuni settori dell’economia e delle relazioni industriali nell’ultimo anno, si sta consolidando un nuovo orientamento giurisprudenziale circa la congruità dei minimi tabellari stabiliti dai contratti collettivi nazionali. Ciò anche con riguardo a quelli stipulati – e questo è ancor più di rilievo – da sindacati della cui rappresentatività “maggiore” o “comparativamente maggiore” è difficile dubitare.
Più in particolare, se è da sempre pacifico nella giurisprudenza di legittimità che sul piano presuntivo o di tipicità sociale la retribuzione equa coincida con il minimo tabellare dei CCNL la effettiva sufficienza del minimo tabellare stabilito dai CCNL è oggi un principio messo fortemente in discussione. E lo è non perché il potere di sindacare la retribuzione non fosse già stato imputato al giudice dalla giurisprudenza, ma poiché inedito è l’uso che ne è stato ultimamente fatto. Non è la prima volta, infatti, che i giudici ammettono l’astratta eventualità di discostarsi dai minimi tabellari della contrattazione collettiva di settore attraverso l’utilizzo di criteri di valutazione e di parametri differenti e con il solo obbligo di adeguata e puntuale esposizione dei propri indicatori. Eppure, con la sentenza Cass. 2 ottobre 2023, n. 27722 tale principio è stato ulteriormente strutturato stabilendo che la retribuzione fissata dalle parti sociali nei contratti collettivi ben può essere messa concretamente in discussione ogni volta che il livello salariale previsto non risulti effettivamente conforme ai parametri di proporzionalità e sufficienza di matrice costituzionale (si fa chiaramente riferimento all’art. 36 della Cost.).
In termini simili, poco più di due mesi dopo, la sentenza Trib. Milano 11 dicembre 2023 ha riconosciuto il diritto alla retribuzione prevista da un altro CCNL rispetto a quello applicato dalla cooperativa ad un lavoratore socio di una cooperativa adibito in un appalto. Ciò che ha avuto rilievo per i giudici meneghini è l’attività oggettivamente svolta e non l’applicazione formale di un altro CCNL. Per procedere a tale ricostruzione i giudici si sono basati su: (i) l’oggetto sociale della cooperativa; (ii) il suo codice Ateco; (iii) il regolamento interno; (iv) l’oggetto del contratto di appalto e (v) la prestazione lavorativa svolta.
I medesimi principi sono poi stati confermati anche dalla sentenza Corte App. Milano del 3 gennaio 2024, n. 960 che ha ritenuto non conforme al dettato costituzionale il trattamento salariale applicato da una società ai propri dipendenti a seguito del rinnovo contrattuale del CCNL applicato e sottoscritto dalle organizzazioni sindacali di categoria maggiormente rappresentative. La Corte, approfondendo quanto stabilito dalla sentenza Cass. 10 ottobre 2023, n. 28320, ha disapplicato i parametri retributivi stabiliti dalle parti sociali censurandone i minimi salariali poiché prossimi “al reddito di cittadinanza, alla soglia di povertà assoluta secondo gli indici ISTAT (…) idonea a consentire l’accesso al patrocinio dello Stato”. Tali parametri sono stati ritenuti non conformi all’art. 36 della Cost. “nella duplice veste di diritto ad una retribuzione proporzionata e di diritto ad una retribuzione sufficiente”. Ad essere oggetto della pronuncia, tuttavia, non era affatto un contratto afferente alla c.d. “contrattazione privata” e dunque sottoscritto da sindacati scarsamente rappresentativi, ma il CCNL adottato dalle più importanti organizzazioni sindacali del settore (CGIL, CISL, UIL e UGL) che avevano condiviso all’unanimità il nuovo sistema retributivo teso (anche) a consentire il rilancio del settore in oggetto, compromesso da una pervasiva crisi.
L’orientamento in esame, dunque, innova rispetto a quello precedente potenziando l’uso concreto del potere posto in capo ai giudici di sindacare la retribuzione fissata dalle intese collettive, anche quelle finora mai messe in discussione. A voler leggere tra le righe potrebbe sembrare che sia proprio l’“autorità salariale” definita dall’autonomia collettiva, da sempre sede privilegiata per la definizione della retribuzione, ad esser messa in discussione.
Sarà effettivamente così?
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Alessia Consiglio, Associate
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