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Golden Power: un menù à la carte

Nell’intento paradossale di attirare investimenti, da un lato, e di setacciarli, dall’altro lato, il legislatore italiano detta una disciplina dei poteri speciali del Governo nelle società operanti in settori strategici e di interesse nazionale (d.l. n. 21/ 2012), che sostituisce quella previgente della c.d. “Golden Share” (d.l. n. 332/94) ispirandosi al modello statunitense del “Golden Power”, e sottopone ad un vaglio amministrativogovernativo le operazioni societarie a fronte, non di privatizzazioni o dismissioni delle imprese nazionali, bensì del mero tentativo di investimento di provenienza straniera.

Il punto di forza del Golden Power italiano, quale disciplina generale in materia di investimenti (di portafoglio o diretti, esteri o nazionali) nei settori strategici, sta in particolare nel suo essere costruito sulla falsariga delle censure sollevate dalla Corte di giustizia UE alla Golden Share, donde, per non compromettere la libertà di circolazione dei capitali e la libertà di stabilimento, i poteri speciali non discendono più da una clausola statutaria seppure ex lege, ma sono definiti e circoscritti direttamente dalla legge; applicati esclusivamente ai settori strategici indicati dalla legge; esercitati secondo oggettività, proporzionalità e non discriminazione; e, diversamente da quanto accade nel sistema statunitense, sottoposti a sindacato giurisdizionale.

Ma siamo sicuri che questo cambio di paradigma sia sufficiente a contemperare gli interessi in gioco?

I Golden Power (GP) sono bensì diversamente disciplinati a seconda dei settori, e diversamente graduabili in ragione della delicatezza degli interessi in gioco, ma acquistano un’impronta prettamente pubblicistica ed “autoritativa”, capace di informare di sé l’intera disciplina: vuoi sul fronte delle situazioni giuridiche soggettive, che degradano da diritti soggettivi a interessi legittimi; vuoi sul fronte della giurisdizione, che passa dalla competenza del giudice ordinario a quella del giudice amministrativo; vuoi sul fronte dello stesso diritto oggettivo, che vede obblighi e sanzioni altrimenti sconosciuti al diritto societario (si pensi all’imposizione di condizioni o impegni; alla nullità di deliberazioni approvate con i voti sospesi; ai doveri di ripristino, anche a spese dell’eventuale controparte; alle sanzioni amministrative pecuniarie ecc.) e, quel che più conta, vede scelte di tecnica legislativa che lasciano numerose incognite sul piano interpretativo. Valga qualche esempio, in punto di diritto societario.

Gli enunciati normativi sono molto lunghi, ricchi e talora prolissi; ma soprattutto sono suscettibili di lettura cangiante, a seconda che uno stesso enunciato sia riguardato dalla prospettiva dell’investitore, che deve capire se e a quali condizioni è tenuto all’obbligo di notifica, o da quella del Governo, che deve stabilire se e a quali condizioni esercitare il potere speciale.

Emblematica è la difficoltà di interpretare il vocabolo “partecipazione”, ma altrettanto potrebbe dirsi per il vocabolo “controllo”, “acquisto”, “acquisizione”, “trasferimento”, “patto parasociale” ecc. nel d.l. 21/2012, ove si consideri che, tanto per i settori della difesa e della sicurezza nazionale (art. 1, co. 1, lett. a) e c) e co. 5), quanto per i settori dell’energia, dei trasporti, delle comunicazioni o ad alta intensità̀ tecnologica (art. 2, co. 5), il legislatore si riferisce genericamente all’acquisto/acquisizione di “partecipazioni” senza ulteriori specificazioni, se non circa il soggetto che, rispettivamente, acquista, acquisisce ecc.

Ed in vero la tecnica legislativa impiegata dal d.l. n. 21/2012 si discosta nettamente da quella usata in altri luoghi dell’ordinamento, dove individuare la partecipazione di volta in volta rilevante è reso agevole da disposizioni ad hoc (si pensi all’art. 1, co. 6-bis TUF; all’art. 120, co. 1, TUF; all’art. 2, d.lgs. 19 agosto 2016, n. 175, TUSPP), il d.l. 21/2012 non chiarendo quale sia il perimetro di applicazione della nozione di partecipazione di volta in volta considerata: se cioè per partecipazioni si intendano soltanto le partecipazioni sociali (azioni e quote) con diritto di voto o anche quelle prive del voto; se solo partecipazioni al capitale o anche strumenti finanziari partecipativi, ed eventualmente solo quelli dotati di diritti amministrativi (artt. 2346, ult. co., e 2351, ult. co., c.c.); se rilevino anche i “diritti particolari” di ordine amministrativo attribuiti ai soci a prescindere dalla grandezza della partecipazione sociale (art. 2468, co. 3, c.c.); se, in ipotesi di azioni a voto plurimo e di maggiorazione del voto o, all’opposto, di minorazioni del voto, in presenza di tetti massimi o del voto scalare (ex art. 2351, co. 3, c.c.), si debba tenere conto del solo numero delle azioni o anche del numero dei voti o soltanto dei voti ecc.

Questo non chiarire del diritto scritto ingenera il dubbio, nell’investitore, se quello che sta acquistando abbia o meno un valore che possa essere messo in discussione in sede di esercizio dei poteri speciali.

Tanto più che lo stesso legislatore, lungi dal fugare tali dubbi, li alimenta, là dove dissemina il testo normativo di continui riferimenti ai “diritti di voto”, o comunque di contenuto diverso da quello patrimoniale, “connessi alle azioni o quote”, e ciò tanto con riferimento alla notifica, quanto all’esercizio dei poteri, come fa quando stabilisce che tali diritti sono sospesi “fino alla notifica e, successivamente, fino al decorso del termine per l’eventuale esercizio del potere” o qualora il potere sia esercitato “per il periodo in cui perdura l’inadempimento” (art. 1, comma 5 ; 2, comma 6).

Se ne ricava che in dubio l’investitore deve notificare: la partecipazione dovendosi intendere, evidentemente, nel significato più ampio possibile, onde offrire al Governo il più gran numero possibile di informazioni per scrutinare e setacciare gli investimenti. Le specificazioni disseminate nel testo, insomma, servono solo per l’esercizio dei poteri speciali, segno che le parole della legge valgono solo per ancorarvi e rendere “precisa” la motivazione della decisione di esercitare i poteri, non già per conciliare l’esercizio dei GP con la “libera” circolazione dei capitali nel mercato europeo.

Di qui, nel menù à la carte, si può trovare di tutto, anche la possibilità, a parità̀ di investimento di risorse patrimoniali, di considerare “partecipazioni” gli strumenti finanziari c.d. “partecipativi” (SFP), ancorché non partecipanti al capitale, qualora il diritto di nomina di un amministratore, che gli SFP dovessero attribuire, risultasse più significativo, sul piano delle influenze decisionali, di quanto possano esserlo azioni prive del diritto di voto (nel qual caso, nel dubbio se siano da notificare gli uni o le altre, sarebbero da notificare gli uni e le altre, per quanto sarà poi il Governo a decidere se e cosa considerare rilevante nel caso specifico).

Ulteriori ambiguità del d.l. 21/12 si riscontrano poi per le società quotate, atteso che, con riferimento ai settori della difesa e della sicurezza nazionale, l’acquisizione della partecipazione rileva e va notificata quando superiore al 3 per cento, e successivamente all’acquisizione del 5, del 10, del 15, del 20, del 25 e 50 per cento del capitale (art. 1 co. 5, l.l.), laddove con riferimento ai settori dell’energia, dei trasporti, delle comunicazioni o ad alta intensità̀ tecnologica l’acquisto di partecipazioni deve essere “di rilevanza tale da determinare l’insediamento stabile dell’acquirente in ragione dell’assunzione del controllo della società̀ la cui partecipazione è oggetto dell’acquisto”.

L’ambiguità, qui, non sta soltanto nel rapporto tra “controllo” e “insediamento stabile”, che sono entrambi menzionati dalla disposizione (laddove normalmente, nel diritto comunitario, l’insediamento stabile è quello che discende dal controllo, donde qui la sua specificazione sarebbe pleonastica); sta soprattutto nel definire il controllo “ai sensi dell’articolo 2359 del codice civile e del testo unico di cui al decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58”, e ciò con l’ulteriore precisazione che nel computo della partecipazione rilevante “si tiene conto della partecipazione detenuta da terzi con cui l’acquirente ha stipulato uno dei patti previsti dall’articolo 122 del testo unico di cui al decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58, e successive modificazioni, o previsti dall’articolo 2341-bis del codice civile (art. 2, comma 5, d.l. 21/12). Ma questo rinviare indistintamente agli enunciati del codice civile “e” del TUF (presumibilmente art. 93), aventi ciascuno una propria formulazione e una diversa capacità di espansione – ed altrettanto potrebbe dirsi con riferimento ai patti del codice civile e del TUF – non è affatto casuale, essendo il frutto di una precisa tecnica legislativa tesa, ancora una volta, ad allargare il più possibile la base testuale cui ancorare la motivazione della decisione di esercitare i poteri o, se si preferisce, onde rendere più ricco il menù à la carte.

Il che è tanto più inquietante ove se si consideri, da un lato, che nell’emergenza COVID-19, il recente d.l. n. 23/2020 (Decreto Liquidità), nell’intento di salvaguardare i settori strategici e di interesse nazionale, ha ulteriormente allargato il perimetro d’applicazione del GP con il rischio che tutto possa diventare d’interesse “strategico”; e che, dall’altro lato, non si tratta di una scelta isolata del legislatore italiano, bensì propria anche di altri ordinamenti europei oltreché di una scelta avallata, se non incoraggiata dalle stesse istituzioni europee (v. la Comunicazione della Commissione europea: Accogliere con favore gli investimenti esteri diretti tutelando nel contempo gli interessi, 2017, p. 5, circa il rischio che, seppure l’apertura europea agli Investimenti Diretti Esteri (IDE) è un principio cardine dell’ordinamento europeo, in singoli casi gli investitori stranieri possono cercare di acquisire il controllo o esercitare influenza nelle imprese europee le cui attività hanno ripercussioni sulle tecnologie cruciali, sulle infrastrutture, sui fattori produttivi o sulle informazioni sensibili, rischio che “sorge anche e soprattutto quando gli investitori stranieri sono statali o controllati dallo Stato, anche mediante finanziamenti o altri mezzi”; v. la Proposta della Commissione di Regolamento che istituisce un quadro per il controllo degli investimenti esteri diretti nell’UE per motivi di sicurezza o di ordine pubblico nel 2017; e v. il Regolamento (UE) 2019/452 del Parlamento Europeo e del Consiglio dei 19 marzo 2019).

Venendo quindi al Decreto Liquidità, l’ampliamento del GP ha tutti i connotati di una misura protezionistica, indice di debolezza del nostro sistema imprenditoriale. L’obbiettivo manifesto è di evitare scalate ostili: l’effetto indesiderato è che metterà a rischio gli IDE di cui il nostro Paese ha invece bisogno ora più che mai.

Le libertà di stabilimento e di movimento dei capitali costituiscono un caposaldo del Trattato UE ed ogni misura adottata dagli Stati Membri che vada nella direzione opposta mina le fondamenta stesse del Mercato Unico.

La pandemia rischia di essere un pretesto – e non una giusta causa – per presidiare asset già deboli in partenza, per fattori che nulla hanno a che vedere con gli effetti del Coronavirus sulle dinamiche del business. Ciò è a maggior ragione vero ove si consideri che, salve poche eccezioni, l’intero pianeta sta sperimentando gli effetti del lock down: e quindi, come mai prima d’ora, ci si trova tutti pressoché nella stessa condizione. Ciò che muta – e può fare effettivamente la differenza – è la condizione di partenza e lo sfasamento nelle date di adozione di misure di contenimento e di graduale ritorno alla normalità nei singoli Paesi. A ciò può aggiungersi la diversa incisività delle misure adottate dai singoli Stati a sostegno delle famiglie e delle imprese. L’insieme di questi fattori può ingenerare disparità competitive di cui possono trarre vantaggio coloro che, ad esempio, riprendono a produrre e vendere quando i propri competitors sono ancora invischiati nelle restrizioni del lock down: o, ancora, quelle imprese che hanno tratto maggiori benefici da misure governative emergenziali più mirate.

L’impressione è che in Italia l’esigenza di porre a riparo attività strategiche (attraverso l’ampliamento dei poteri speciali) nasca, appunto, dal deficit competitivo del nostro sistema imprenditoriale: deficit che le misure adottate in questi ultimi mesi dal nostro Governo non hanno purtroppo scalfito.

Il GP comprime la libertà di iniziativa economica in nome dell’ordine pubblico e della sicurezza nazionale. Ogni sua rimodulazione ha implicazioni di straordinaria gravità, proprio perché in ballo vi è una libertà fondamentale di rango costituzionale, e impone che si soppesino con particolare misura gli interessi contrapposti: tra i quali non è secondario il diritto dell’imprenditore a disinvestire. Per altro verso se si vuole che il Paese mantenga la sua forte connotazione industriale non si possono chiudere le frontiere agli IDE, forse neppure nei settori strategici: il rischio è – specie in presenza di uno Stato debole qual è il nostro – quello di una morte per asfissia del nostro sistema produttivo, con tutto quel che ne consegue.

Vero è, infatti, che non conta – o, per certi versi, conta relativamente – chi controlla la società, ma piuttosto che questa non sia indotta – ad esempio, per via della burocrazia soffocante o per i ritardi nei pagamenti delle PA – a lasciare il Paese, chiudendo stabilimenti e lasciando a casa i lavoratori: con buona pace del menù à la carte.

 

 

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