Opinioni
La Cassazione archivia la tesi dell’incasso giuridico degli interessi sui finanziamenti soci.
Con la recente sentenza 16595/2023 la Suprema Corte di Cassazione ha sostenuto che sono venute meno le ragioni che giustificavano la tesi dell’incasso “giuridico” sostenute dall’Amministrazione finanziaria (a partire dalla circolare ministeriale 73/1994) e più volte condivise dalla stessa Suprema Corte, a seguito dell’introduzione a partire dall’anno 2016 del comma 4-bis all’articolo 88 del Tuir, secondo il quale la rinuncia dei soci ai crediti si considera sopravvenienza attiva per la parte che eccede il relativo valore fiscale, cosa che accade di norma quando oggetto della rinuncia è un finanziamento cui accedono interessi maturati ma non ancora riscossi.
La teoria dell’incasso giuridico
L’amministrazione finanziaria aveva sostenuto che – quando un socio rinuncia ad un credito da compensi spettanti agli amministratori ovvero da finanziamento includendo in tale ultima rinuncia la sorte interessi maturata (il cui incasso avrebbe costituito per un socio non residente reddito soggetto alla ritenuta alla fonte, salvo esenzione in caso di applicabilità della Direttiva 2003/49/UE c.d. Interessi e Royalties) – al fine di evitare salti d’imposta si doveva ritenere che il socio abbia incassato tale credito e lo avesse poi riversato alla società, con la conseguenza che gli interessi dovevano considerarsi incassati attraverso una fictio iuris e dunque assoggettabili a ritenuta.
In particolare, con la citata Circolare 73/1194 l’Amministrazione Finanziaria, in risposta ad un quesito posto nel Forum del Sole24Ore del 18 maggio 1994, affermava come: “tutti i crediti ai quali il socio rinuncia vanno portati ad aumento del costo della partecipazione, ai sensi dell’art. 61, comma 5, del Tuir, i quali, per la società non costituiscono sopravvenienze attive, così come dispone l’art. 55, comma 4, del Tuir. Naturalmente la rinuncia ai crediti correlati a redditi che vanno acquisiti a tassazione per cassa (quali, ad esempio, i compensi spettanti agli amministratori e gli interessi relativi a finanziamenti dei soci) presuppone l’avvenuto incasso giuridico del credito e quindi l’obbligo di sottoporre a tassazione il loro ammontare, anche mediante applicazione della ritenuta di imposta.“.
In accordo con la legittimità di tale fictio, si sono espresse molteplici volte sia l’Agenzia delle Entrate (cfr. Risoluzione 124/2017), sia la Suprema Corte (ex multis cfr. Cass. 12222/2022).
In particolare, con la citata ordinanza n. 12222/2022 l’Alto Consesso aveva sostenuto che la rinuncia, da parte del socio-amministratore, al Trattamento di Fine Mandato (TFM) costituisce dal punto di vista giuridico un incasso, come tale suscettibile di essere tassato, in quanto:
- da un lato, presuppone la possibilità di disporre di una somma di denaro, che è espressione della volontà di patrimonializzare la società e, pertanto, presuppone il conseguimento del credito il cui ammontare viene, in ogni caso, “utilizzato”, anche se non materialmente incassato;
- dall’altro lato, arricchisce un soggetto giuridico in cui il rinunciante è socio, con la conseguenza che quest’ultimo, in violazione del principio della capacità contributiva, si gioverebbe per il tramite dello schermo della personalità giuridica, dell’incremento della partecipazione sociale.
Il principio traeva (sia pure solo parzialmente) ragione dalla circostanza che, in base alla previgente normativa in vigore sino al periodo d’imposta in corso al 7 ottobre 2015 (2015, per i soggetti “solari”), la rinuncia da parte del socio al credito nei confronti della società partecipata non determinava, in capo a quest’ultima, l’insorgere di una sopravvenienza attiva rilevante ai fini della formazione del reddito imponibile (art. 88 comma 4 del TUIR) e si aggiungeva (totalmente) al costo fiscalmente riconosciuto della partecipazione detenuta nella società debitrice (sul punto cfr. ex aliis Risoluzioni dell’Agenzia delle Entrate nn. 152/2002 e 41/2001). In sostanza, l’operazione veniva trattata come un apporto al patrimonio della società da parte del socio rinunciante senza effetti reddituali espliciti e, dunque, poteva generare un salto d’imposta.
I nuovi principi di diritto espressi dalla Cassazione si allineano alla dottrina maggioritaria
La sentenza in oggetto afferma ora che occorre effettuare una distinzione tra la previgente disciplina applicabile fino all’anno d’imposta 2015, sopra richiamata, e quella vigente.
I Giudici di Piazza Cavour, allineandosi alla dottrina maggioritaria (ex multis cfr. norma di comportamento n. 201 del febbraio 2018 dell’Associazione italiana Dottori Commercialisti -AIDC), prendono atto del fatto che per effetto del nuovo comma 4-bis, articolo 88, del Tuir, dalla rinuncia dei crediti vantati dal socio consegue una imposizione in capo alla società partecipata a titolo di sopravvenienza attiva, da rilevare quale variazione in aumento del reddito imponibile, di importo pari al credito rinunciato. La stessa rinuncia non può quindi essere tassata anche in capo al socio, per il quale – simmetricamente – non si incrementa il costo fiscale della partecipazione. In buona sostanza, l’operazione non è più trattata come un apporto patrimoniale da parte del socio ma viene “scomposta”: per la somma pari al valore fiscale del credito resta una operazione di apporto, mentre per la parte eccedente (ad es. per gli interessi maturati e non ancora pagati) l’operazione viene equiparata alle analoghe operazioni di rinuncia a crediti ad esempio commerciali operate da creditori non soci, le quali hanno effetti reddituali.
Nello specifico, la Suprema Corte ha dettato il seguente principio di diritto: “« In tema di imposte sui redditi di capitale – in ragione di quanto previsto dagli artt. 88, comma 4-bis, 94, comma 6, 101, comma 5, t.u.i.r. a seguito delle modifiche di cui all’art. 13 legge 14 settembre 2015, n. 147 – la rinuncia, operata da un socio nei confronti della società, al credito avente ad oggetto interessi maturati su finanziamenti erogati nei confronti di una società partecipata, non comporta l’obbligo di sottoporne a tassazione il relativo ammontare, con applicazione, ai sensi dell’art. 26, quinto comma, del d.P.R. n. 600 del 1973, della ritenuta fiscale, cui la società è tenuta quale sostituto d’imposta, avendo le nuove disposizioni rimediato all’asimmetria fiscale o “salto d’imposta” di cui al precedente regime“.
Difatti, a partire dal periodo d’imposta successivo a quello in corso al 7 ottobre 2015 (2016, per i soggetti “solari”), contrariamente da quanto previsto dalla previgente disciplina, la norma di riferimento non è più il co.4 dell’art. 88 del TUIR, bensì il nuovo co. 4-bis, in base al quale “la rinuncia dei soci ai crediti si considera sopravvenienza attiva per la parte che eccede il relativo valore fiscale”. Il nuovo regime qualifica, quindi, come “apporto” la sola parte di rinuncia che corrisponde al valore fiscalmente riconosciuto del credito in capo al socio. Simmetricamente, in capo al socio imprenditore che detiene le partecipazioni in regime di impresa, ai sensi degli artt. 94 co. 6 e 101 co. 7 del TUIR l’ammontare della rinuncia si aggiunge al costo fiscalmente riconosciuto della partecipazione “nei limiti del valore fiscale del credito oggetto di rinuncia”.
Di talché – diversamente da quanto prospettato nel precedente regime, sia dall’Alto Consesso, sia dall’Amministrazione finanziaria – la rinuncia di un credito avente valore fiscale pari a zero (es. i crediti legati ad un reddito tassato per cassa), non incrementa il valore fiscale della partecipazione. Di contro, detta rinuncia comporta la tassazione integrale della sopravvenienza attiva in capo alla società partecipata e, specularmente, in capo al socio imprenditore che detiene le partecipazioni in regime di impresa, l’ammontare della rinuncia si aggiunge al costo fiscalmente riconosciuto della partecipazione “nei limiti del valore fiscale del credito oggetto di rinuncia”.
Criticità e diritto al rimborso
L’applicazione dei principi espressi dalla Cassazione non presenta alcun problema nel caso in cui il credito del socio derivi da una fattispecie reddituale che è stata dedotta in capo alla società (come nel caso degli interessi passivi su finanziamenti oggetto della sentenza in commento). Difatti, alla deduzione di questi ultimi si contrappone l’imposizione della loro rinuncia sempre in capo alla società, evitando così ogni salto d’imposta e tornando a una situazione fiscalmente equivalente a quella che si avrebbe verificata se la società non avesse mai rilevato in contabilità tali interessi passivi.
Viceversa, tali principi non risolvono il caso in cui il credito rinunciato derivi da una fattispecie reddituale che non è stata dedotta dalla società (es. i compensi amministratori, che sono deducibili per cassa e non per competenza). Difatti, a fronte della “non deduzione” del compenso rilevato a conto economico si ha la successiva imposizione in capo alla società della rinuncia allo stesso, generandosi così una indebita base imponibile, maggiore di quella che si avrebbe avuto se la società non avesse mai rilevato in contabilità tali compensi.
A parere di chi scrive, quindi, l’unica possibile soluzione per evitare che, l’applicazione dei principi espressi dalla Corte generi in capo alla società una base imponibile artefatta, è riconoscere alla società la possibilità di dedurre, nell’esercizio in cui viene rinunciato il corrispondente credito, il costo per il compenso dell’amministratore, fingendo nuovamente (ma in senso opposto) che tale compenso sia stato pagato e poi riversato alla società, un “pagamento giuridico”.
Un ulteriore profilo di criticità emerge se si considerano i finanziamenti infragruppo tra società assoggettate a tassazione in giurisdizioni diverse. Infatti, la tassazione in Italia dei crediti per interessi maturati e rinunciati in capo alla società finanziata potrebbe non essere riconosciuta come “imposta pagata all’estero” da parte della società estera finanziatrice. Quest’ultima potrebbe dover tassare gli interessi maturati secondo il principio di competenza senza avere diritto nella propria giurisdizione al credito per imposte pagate all’estero (in quanto formalmente esse sono imposte della società italiana finanziata), né al rimborso totale o parziale previsto dalle Convenzioni bilaterali e dalla Direttiva Interessi e Royalties se la tassazione continuasse ad essere qualificabile come una ritenuta alla fonte, quale era nella logica dell'”incasso giuridico”.
A prescindere dalle criticità sopraenunciate, appare incontrovertibile che a partire dall’anno d’imposta 2016, in caso in cui un socio abbia rinunciato al proprio credito maturato per interessi connessi ad un finanziamento da questo erogato alla società, lo stesso, nel rispetto dei termini di decadenza, potrà richiedere il rimborso delle maggiori imposte versate a causa dell’illegittima applicazione della teoria dell’incasso giuridico.
Sarebbe comunque opportuno che l’Amministrazione finanziaria fornisca al più presto chiarimenti sul punto.
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