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Clausole di put option con plusvalenza garantita: violazione del patto leonino?

Nell’ambito delle operazioni di investimento molto spesso si ricorre alle c.d. clausole di put option che consentono all’investitore di “uscire” dall’investimento effettuato al verificarsi di determinate condizioni.

Dal momento che queste clausole possono consentire all’investitore di recupere somme superiori all’investimento iniziale anche nell’ipotesi in cui la società registri delle perdite, si è posto il problema se tali clausole violino il c.d. divieto di patto leonino. Proprio di questo tema si è occupato di recente il Tribunale di Milano, che, con sentenza dell’8 maggio 2023 n. 3696, ha ribadito legittimità delle clausole di put option a prezzo fisso rispetto al divieto di patto leonino.

Le clausole di put option e il divieto di patto leonino

Uno degli strumenti che trova maggiore applicazione nell’ambito delle operazioni di M&A e di private equity è senza dubbio la c.d. put option. Nate nell’ambito dei contratti finanziari derivati, queste clausole sono state poi adattate al contesto societario e inserite nei patti parasociali (accordi stipulati tra i soci per orientare una determinata condotta nell’esercizio dei diritti sociali) e sono state oggetto di numerosi interventi giurisprudenziali che ne hanno costantemente riconosciuto la liceità e la meritevolezza.

Nel merito, le clausole di put option sono dei particolari strumenti che offrono al socio investitore, al verificarsi di determinate condizioni, la facoltà (ma non l’obbligo) di vendere la propria partecipazione agli altri soci (che sono obbligati ad acquistarla) ad un prezzo prestabilito, eventualmente maggiorato di interessi, nonché di ottenere il rimborso dei versamenti erogati nelle more in favore della società.

Con patto leonino s’intende invece quel particolare accordo in forza del quale uno o più soci sono esclusi dalla partecipazione alle perdite o agli utili. Ai sensi dell’art. 2265 c.c., il patto leonino – sia esso contenuto nell’atto costitutivo o previsto in accordi separati – è sempre nullo, in quanto contrasta con il fondamentale principio giuridico che impone che chi trae vantaggio da una situazione deve sopportarne anche i pesi e con la natura stessa dell’accordo di società, il quale trova proprio la sua essenza nella divisione degli utili e delle perdite tra tutti i soci; la funzione di tale nullità è quella di evitare una eccessiva deresponsabilizzazione del socio nell’esercizio dei suoi diritti e dunque evitare che un socio, come il proverbiale leone della favola di Fedro, a fronte della mancata assunzione di rischi, ne tragga invece un vantaggio.

Dal momento che la legge non solo vieta il patto leonino ma anche tutti quei patti i cui effetti corrispondono a quelli del patto leonino, si è posto il problema della validità della clausola di put option: nel concreto, infatti, il socio opzionario può recuperare il proprio investimento e la relativa plusvalenza anche nel momento in cui la società registra una perdita, andando così – almeno apparentemente – a restare escluso dalla suddivisione delle perdite tra i soci.

La pronuncia del Tribunale di Milano

Come anticipato in premessa, con la sentenza n. 3696 dell’8 maggio 2023, i giudici meneghini si sono pronunciati proprio in merito al rapporto tra clausole di put option e divieto di patto leonino.

Il contenzioso in parola nasce da un accordo di investimento contenente una clausola di put option a prezzo fisso con plusvalenza garantita concessa dai soci all’investitore e che questi avrebbe potuto esercitare in un determinato periodo di tempo successivo all’avverarsi di una specifica condizione negativa. Tuttavia, all’avverarsi della condizione, i soci concedenti si rifiutavano di dare seguito al diritto di opzione, e, una volta instaurato il giudizio, evidenziavano, tra le varie contestazioni, come la clausola di put concedesse al socio investitore un “diritto potestativo di ottenere il riacquisto delle azioni ad un prezzo fisso senza subire alcuna incidenza dall’eventuale andamento negativo della società”, violando così il divieto di cui all’art. 2265.

Dopo aver analizzato la struttura del divieto di patto leonino, il Tribunale ha evidenziato come:

  1. per poter trovare applicazione il divieto di cui all’art. 2265 c.c., è necessaria che vi sia un’esclusione “totale e costante di uno o di alcuni dei soci dalla partecipazione al rischio di impresa e dagli utili, ovvero da entrambe” (Cass. Civ., n. 8927/1994); questa esclusione deve essere intesa senso sostanziale (e non formale) e si concretizza solo in quelle ipotesi in cui la partecipazione agli utili o alle perdite sia, di fatto, impossibile per tutta la durata del rapporto societario;
  2. il concetto di perdita richiesto dalla norma assume un significato diverso a seconda che si parli di società di persone o di società di capitali: nelle società di persone, le perdite sono tutti i debiti che la società non riesce a pagare con il proprio capitale e di cui il socio risponde illimitatamente; nelle società di capitali, dove la responsabilità del socio è limitata al conferimento effettuato, assumono invece rilevanza solo quelle perdite capaci di intaccare il capitale sociale per oltre 1/3 o, addirittura, di farlo scendere al di sotto del minimo legale. Pertanto, secondo i giudici meneghini, in una società di capitali, si avrà esclusione dalle perdite solo quando “per statuto o per patto parasociale, il socio è in grado, mantenendo la stessa partecipazione, di scaricare il relativo costo su altri soci”.

In considerazione di quanto sopra, il Tribunale di Milano ha ritenuto che, in caso di esercizio di una put option con plusvalenza garantita, non ricorrano i presupposti di applicazione dell’articolo 2265 c.c..

L’opzionario infatti “ha assunto tutti i diritti e gli obblighi del suo status di socio, ponendosi il meccanismo sul piano della circolazione delle azioni piuttosto che su quello della ripartizione degli utili e delle perdite”.  Inoltre, avendo ricoperto la qualità di socio ben prima dell’esercizio del diritto di put option – che poteva essere esercitato solo all’avverarsi di una specifica condizione e solo in una determinata parentesi temporale – è rimasto pertanto soggetto a rischi delle perdite derivanti dalla partecipazione sociale e, pertanto, non ricorre quella la situazione di esclusione assoluta e costante dalle perdite o dagli utili, necessaria affinché possa dirsi alterata in concreto la causa societatis.

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