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“D.d.l. Capitali” e ultime novità in tema di voto plurimo e voto maggiorato

Il D.D.L. Capitali (DDL S. 674), nell’ottica di rendere più accattivante la quotazione, si riproponeva inizialmente (accanto a misure di semplificazione delle procedure di ammissione alla negoziazione e di riduzione degli oneri a carico delle imprese) di intervenire sul solo voto plurimo, rendendone “più flessibile” (v. relazione al DDL) la disciplina attraverso un incremento del fattore moltiplicativo dei voti (dagli attuali “tre” a “dieci”), ma in realtà nel testo approvato dal Senato ed attualmente in discussione alla Camera (Camera dei Deputati, VI Commissione Finanze, DDL A.C. 1515) le modifiche proposte hanno finito per riguardare anche lo stesso voto maggiorato.

La ragione di ciò sta nel fatto che gli emendamenti presentati hanno convinto i relatori che vi fosse la necessità di rendere la disciplina italiana “più flessibile” non solo per le società quotande, ma anche per le società già quotate, per le quali come si sa l’ordinamento italiano non conosce le azioni a voto plurimo (se non quando già emesse prima della quotazione e comunque per mantenere inalterati i rapporti tra le diverse categorie di azioni), ma solo le azioni a voto maggiorato. Di qui il testo approvato dal Senato contiene ora la proposta di elevare fino a “dieci” (dagli attuali “due”) il fattore moltiplicativo dei voti anche per le azioni a voto maggiorato e quindi anche per le società quotate, l’intento essendo – in entrambi i casi – quello di consentire ai soci di controllo di mantenere il controllo anche dopo la quotazione.

Peccato però che, trattandosi di due meccanismi assai diversi tra loro (le azioni a voto plurimo e le azioni a voto maggiorato), l’identico fattore moltiplicativo dei voti non produce affatto un identico risultato in entrambi i casi e tanto meno un risultato identico a quello che le azioni a voto plurimo e le azioni a voto maggiorato producono negli ordinamenti esteri (Olanda) verso i quali “migrano” le società italiane che dichiarano di essere state attratte, appunto, dal voto plurimo e/o maggiorato.

Ed infatti nell’ordinamento italiano le azioni a voto plurimo (c.d. dual class share) sono una categoria speciale di azioni, la quale deve trovarsi in un ben preciso rapporto con le altre (ordinarie), mentre le azioni a voto maggiorato (c.d. loyalty share) sono un meccanismo premiale per gli azionisti fedeli (o di lungo corso) che si spalma sull’intero corpo votante. Di conseguenza, l’emissione di azioni a voto plurimo non incrementa il numero totale dei voti esercitabili, che resta fisso; numero che si incrementa, invece, a mano a mano che le azioni a voto maggiorato conseguono la maggiorazione del voto.

Questo comporta – quanto alle azioni a voto plurimo – che, contrariamente a quanto si creda, l’elevazione del fattore moltiplicativo dei voti (fino a 10) non aumenta i voti a disposizione dei soci di controllo (essendo appunto azioni a voto plurimo, e non a peso plurimo), diminuendo soltanto il numero delle azioni per conseguirlo (il che peraltro non è poco).

Diversamente – quanto alle azioni a voto maggiorato – l’elevazione del fattore moltiplicativo dei voti (sempre fino a 10) aumenta bensì il totale dei voti esercitabili ed aumenta presumibilmente anche i voti dei soci di controllo, ma ciò presuppone che lo statuto, oltre a prevedere l’istituto della maggiorazione del voto, preveda anche un’ulteriore clausola in virtù della quale ulteriori voti (rispetto a quelli già maturati per ciascuna azione appartenuta al medesimo soggetto per un periodo continuativo non inferiore a ventiquattro mesi dall’iscrizione nell’apposito elenco) potranno essere attribuiti agli azionisti fedeli, in ragione di “un voto ulteriore” alla scadenza di ogni periodo di dodici mesi, fino a decuplicare nel giro di dieci anni. Il che però non è detto.

Ed infatti  – al di fuori del caso in cui l’unico a richiedere la maggiorazione sia il controllante di fatto che passerebbe con la maggiorazione al controllo di diritto – l’ulteriore maggiorazione può rendere effettivamente molto dirompente il decorso del tempo per gli azionisti più fedeli (pazienti) che lo tallonano, ma ciò – si badi – in una direzione e in una misura non del tutto ponderabili ex ante, quandanche con riferimento ad una specifica società (la maggiorazione dipendendo dalla durata dell’iscrizione delle azioni, proprie ed altrui, nell’apposito elenco; dalla quantità delle azioni, proprie e altrui, che conseguono della maggiorazione; dal fatto che alla maggiorazione si sia o meno rinunciato; che si rischi o meno di superare la soglia dell’opa ecc.), ed oltretutto con il rischio di pietrificazione del mercato delle partecipazioni. Tanto è vero che la proposta prevede anche il diritto di recesso a fronte dell’ulteriore maggiorazione: un recesso finora espressamente escluso dalla legge a fronte della semplice previsione del voto maggiorato, ma la cui previsione rischia ora di vanificare l’utilità stessa del meccanismo, quale funzionale a rafforzare il potere di controllo dei soci di controllo.

Si può solo osservare, in questa sede, quanto questa decuplicazione dei voti delle nostre azioni a voto maggiorato abbia poco o nulla a che vedere con il meccanismo olandese delle c.d. loyalty share, il quale si basa sull’attribuzione – con il decorrere del tempo – non di ulteriori voti (come è nel sistema italiano e francese, dal quale è stato mutuato) bensì di ulteriori azioni, e soprattutto di ulteriori azioni che, avendo un valore nominale diverso, attribuiscono un numero di voti corrispondentemente diverso: un meccanismo legale piuttosto rigido insomma (tanto paghi, tanto voti), ma utilizzato nella pratica per premiare senza sorprese il socio di controllo.

Di qui, se davvero si crede che le imprese si trasferiscano in Olanda per il voto plurimo e il voto maggiorato, è da credere anche che non saranno queste modifiche (del voto plurimo e del voto maggiorato) a trattenerle o addirittura a richiamarle in patria, perché non vi è fungibilità funzionale tra le misure proposte e quelle attuate negli ordinamenti che si vorrebbero imitare.

Viceversa, ove si ritenga – come pare più plausibile – che la minore competitività del mercato dei capitali italiano non risieda in una qualche (pretesa) minore “flessibilità” in punto di rapporto tra azioni e voti (visto che siamo l’ordinamento europeo più ricco di strumenti di deviazione dal principio one share, one vote), bensì in ben altre criticità della disciplina italiana delle società quotate e segnatamente nei più elevati costi di compliance imposti alle nostre società da regole macchinose che sono stratificate nel tempo (si pensi – a tacer d’altro – a quelle in tema di composizione del CdA, di moltiplicazione dei controlli interni, di invasività di taluni controlli esterni e, non ultime, di obbligatorietà della redazione dei bilanci non solo consolidati ma anche di esercizio utilizzando gli IAS-IFRS, a fronte della loro mera facoltatività in altri ordinamenti europei), è da credere che, nella misura nella quale la riforma dovesse riuscire a ridurre tali costi e in tale direzione dovesse andare anche la prevista delega per la riforma del Tuf, allora la partita della competitività del mercato italiano dei capitali sarebbe davvero tutta da giocare, e con significative possibilità di successo.

Tanto più se, accanto a questa riforma, si provvedesse anche ad ulteriori riforme, volte a rendere più accattivante per le imprese l’intero habitat ordinamentale del diritto italiano: propiziando incentivi fiscali e riducendo la burocrazia, i tempi della giustizia (ingolfata come in nessun altro ordinamento) e soprattutto l’incertezza del diritto, generata dal continuo e imprevedibile mutare delle regole nell’ansia di essere sempre più realisti del re.

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Prof. Avv. Laura Schiuma, Of Counsel
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