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Il rappresentante designato nell’emergenza COVID-19

Come è noto, il Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro dell’economia e delle finanze, ha approvato (11 aprile 2023) un disegno di legge (DDL S. 674) che introduce interventi a sostegno della competitività dei capitali, quale preludio di una “riforma organica” volta a incentivare la quotazione delle società e diffondere l’azionariato della Borsa italiana, anche al fine di sostenere le imprese che puntano a crescere e ad aumentare la propria competitività mediante il ricorso al mercato dei capitali. Il disegno di legge semplifica le procedure di ammissione alla negoziazione, riduce gli oneri a carico delle imprese che intendono quotarsi ed estende la classificazione di “piccole e medie imprese” emittenti azioni quotate, innalzando il tetto della capitalizzazione massima da 500 milioni a un miliardo di euro.

Tra le molte innovazioni proposte (per lo più condivisibili ed auspicabili), due meritano attenzione in questa sede:

  1. quella di consentire allo statuto di prevedere che l’intervento in assemblea e l’esercizio del diritto di voto avvengano esclusivamente tramite il rappresentante designato dalla società ai sensi dell’articolo 135- undecies TUF; rappresentante cui poter conferire anche deleghe o sub-deleghe ai sensi dell’articolo 135- novies, in deroga all’articolo 135-undecies, comma 4, TUF) (v. Art. 12, Svolgimento delle assemblee delle società per azioni quotate) e
  2. quella di consentire allo statuto di attribuire alle azioni a voto plurimo fino a “dieci” voti per ciascuna azione, e non più fino a “tre” come attualmente è (Art. 13, Disposizioni in materia di voto plurimo).

Si tratta di proposte non del tutto originali in verità, essendo:

  • la prima (i) ricalcata sul regime emergenziale introdotto durante la pandemia da Covid 19 (art. 106 d.l. n. 18/2020, c.d. decreto “Cura Italia”), regime la cui vigenza (originariamente fino al 31 luglio 2020) si è protratta fino al 31 luglio 2023 grazie a numerose proroghe e finanche ad una vera e propria sua “riesumazione” ad opera del decreto milleproroghe del dicembre 2022, quando il vigore della disposizione era già definitivamente cessato il 31 luglio 2022;
  • la seconda (ii) essendo stata già avanzata con il c.d. decreto Rilancio nel maggio 2020, ma poi “abortita”, ed essendo ora riproposta in quanto in linea:

vuoi con il Libro Verde “La competitività dei mercati finanziari italiani a supporto della crescita” del 2022 (in continuità a sua volta con l’analisi OECD contenuta nel rapporto “Capital Market Review Italy 2020”, redatto su impulso del Ministero dell’Economia e delle Finanze), che muove da una ricognizione della situazione attuale dei mercati finanziari italiani nel confronto internazionale e individua alcune possibili aree per un’iniziale azione di revisione e ammodernamento del quadro regolamentare;

vuoi con l’attuale proposta di direttiva sulle strutture con azioni a voto plurimo nelle società che chiedono l’ammissione alla negoziazione delle loro azioni in un mercato di crescita per le Pmi, la quale “detta una serie di misure volte a rendere i mercati dei capitali pubblici più attraenti per le imprese dell’UE e a facilitare l’accesso delle piccole e medie imprese (PMI) al capitale”.

Ma si tratta, a ben guardare, di due proposte non del tutto convincenti.

Non la prima, perché consente l’operare a regime, e non soltanto in via transitoria, di quella forma eccezionale di svolgimento delle assemblee che si risolve nella partecipazione in via esclusiva del rappresentante designato dalla società. Una forma di partecipazione che,se era giustificata nell’emergenza pandemica – per evitare il contagio delle persone, ma consentire al tempo stesso lo svolgimento delle assemblee in un mondo ancora non avvezzo all’uso della tecnologia telematica per tenere le riunioni a distanza – non si giustifica più oggi, se non come pretesto per impedire la discussione in sede adunanziale (e soprattutto l’esercizio delle prerogative che ivi si esercitano in conseguenza di quella), sostituendola definitivamente con quel “carteggio” che, per quanto risultante dal sito internet della società, scaturirebbe dall’eventuale esercizio da parte dei soci del diritto di integrazione dell’ordine del giorno e del diritto di porre domande in fase preadunanziale e lascerebbe gli amministratori sostanzialmente arbitri di quel procedimento (assemblea) che è deputato a nominarli, revocarli, rinnovarli in carica, remunerarli ed approvarne l’operato.

Non la seconda, perché, da un lato,si fonda sul (plausibile) presupposto – alla base della proposta di direttiva – che “il timore di perdere il controllo sulla loro società una volta quotata” renda “più probabile che le società, in particolare le PMI, si quotino nei mercati pubblici se gli azionisti di controllo possono mantenere il potere decisionale nella società dopo la quotazione” e che quindi le “azioni a voto plurimo sono un meccanismo efficace per consentire ai proprietari di mantenere i poteri decisionali in una società, raccogliendo nel contempo fondi nei mercati pubblici”, ma dall’altro lato non pare cogliere a pieno la valenza precettiva della proposta di direttiva.

E ciò, innanzitutto perché l’innalzamento del tetto massimo dei voti plurimi attribuibili a ciascuna azione è disposto in via generale per tutte le società per azioni dal d.d.l. capitali, stante la modifica tout court dell’art. 2351, comma 4, c.c., e non per le sole società che chiedano l’ammissione alla negoziazione in un mercato di crescita per le PMI, come prevede invece la proposta di direttiva (v. considerando 7).

E poi perché la proposta di direttiva – preso atto che “attualmente vi è una frammentazione nell’UE per quanto riguarda le strutture con azioni a voto plurimo”, “che alcuni Stati membri consentono strutture con azioni a voto plurimo, mentre altri le vietano” e che “la frammentazione normativa crea condizioni di disparità per le società nei diversi Stati membri” – mira a conseguire soltanto “un’armonizzazione minima” delle legislazioni nazionali sulle strutture con azioni a voto plurimo delle società quotate nei mercati di crescita per le PMI, “lasciando nel contempo agli Stati membri sufficiente flessibilità nell’attuazione”.

La proposta introduce pertanto “la possibilità di adottare strutture con azioni a voto plurimo per tutte le società che chiedono per la prima volta l’ammissione alla negoziazione delle loro azioni in un mercato di crescita per le PMI” e “prevede misure di salvaguardia per garantire la tutela degli azionisti di minoranza e degli interessi della società”, quali quelle che impongono a tutti gli Stati membri di “garantire che qualsiasi decisione di adottare una struttura con azioni a voto plurimo (…) sia presa a maggioranza qualificata in sede di assemblea generale degli azionisti” e quelle che “prevedono inoltre una limitazione al peso di voto delle azioni a voto plurimo introducendo restrizioni alla concezione della struttura con azioni a voto plurimo o all’esercizio dei diritti di voto connessi alle azioni a voto plurimo per l’adozione di determinate decisioni”. Misure, insomma, “ampiamente in linea con le misure di salvaguardia già esistenti negli ordinamenti giuridici degli Stati membri” che consentono le azioni a voto plurimo e per le quali “tali Stati membri dovrebbero apportare adeguamenti minimi ai loro attuali ordinamenti giuridici.”.

Di qui, a differenza di ordinamenti come la Germania e l’Austria, che vietano le azioni a voto plurimo e cui si rivolge precipuamente la proposta di direttiva, le azioni a voto plurimo in Italia vi sono già, come vi sono anche le relative misure di salvaguardia, donde non vi sarebbe alcuna necessità di modificare il diritto scritto per adeguarsi alla direttiva (v. anche considerando 8).

Ed infatti i rischi di infeudamento (entrenchment a livello della dirigenza) e di estrazione dei benefici privati che le “misure di salvaguardia” sono chiamate a temperare per tutelare gli azionisti di minoranza e gli interessi della società (si pensi alle clausole di caducità, alle limitazioni all’uso delle azioni a voto plurimo in determinati casi, alle disposizioni di non trasferibilità, di annullamento automatico o conversione automatica all’uscita ecc.) sono in realtà già scongiurati a monte nel diritto italiano – checché ne dicano in molti – dalla indefettibilità delle azioni ordinarie per almeno la metà del capitale sociale, a fronte della creazione di qualunque categoria di azioni speciale nel voto (art. 2351 c.c.), donde il passaggio da 3 a 10 voti attribuibili a ciascuna azione, sulla base del d.d.l. capitali, poco o nulla aggiungerebbe alla necessità che siano rispettati determinati equilibri nei rapporti tra le diverse categorie di azioni, ordinarie e non.

Del resto, gli ordinamenti europei che conoscono il voto plurimo non conoscono le azioni senza voto e, viceversa, quelli che conoscono le azioni senza voto non conoscono il voto plurimo; il più permissivo degli ordinamenti europei è sicuramente quello inglese, ma la prassi ivi è cauta nello sfruttare più di uno strumento alla volta ed altrettanto può dirsi ora del sistema americano, dove il diritto societario è piuttosto permissivo in pressoché in tutti gli Stati, salvi gli eventuali limiti contenuti in norme federali, ma dove per le società quotate il vero ostacolo alla quotazione delle azioni a voto plurimo è rappresentato dalla disciplina borsistica, che in principio proibisce le dual class structure, ma che in realtà lascia spazio a significative eccezioni.

In Italia, invece, la legge consente all’autonomia statutaria l’introduzione tanto delle azioni senza voto, quanto di quelle a voto plurimo, e non solo di queste. Consente anche: le azioni a voto limitato, che non sono consentite in ordinamenti come la Svezia e la Danimarca, che permettono invece il voto plurimo; le azioni a voto subordinato e, da ultimo, le stesse azioni a voto maggiorato, che sono ispirate al modello francese delle action à droit de vote double, che le introdusse al posto di quelle a voto plurimo (per premiare la fedeltà degli azionisti quale contrappeso alla finance court-termiste propiziata dal record date), laddove invece in Italia tali azioni si aggiungono a quelle azioni a voto plurimo, donde abbiamo le une e le altre.

L’Italia è insomma l’unico ordinamento europeo che già consente tutte le opzioni suddette e che vede quale unico limite che le azioni a voto plurimo (art. 2351, comma 4, c.c.) – in quanto categoria speciale e come tale soggetta a ben determinati equilibri con le altre categorie di azioni, a differenza delle azioni a voto maggiorato (art. 127-quinquies TUF) e di quelle a voto per così dire minorato (delle quali pure disponiamo in Italia, stanti i tetti massimi e il voto scalare di cui all’art. 2351, comma 3, c.c.), che si spalmano sull’intero corpo votante – pensate per essere introdotte nelle sole società non quotate e le azioni a voto maggiorato nelle sole società non quotate, il timore essendo che gli equilibri tra le diverse categorie di azioni siano compromessi dalla fluttuanza dei voti spettanti alle azioni a seconda del tempo trascorso dal momento in cui le stesse sono acquistate a quello in cui sono rivendute da un dato soggetto.

Il che, peraltro, non esclude la possibilità di introdurre azioni a voto plurimo in tutte le altre società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio e soprattutto che si diano azioni a voto plurimo nelle stesse società con titoli quotati, e ciò vuoi perché emesse anteriormente all’inizio delle negoziazioni in un mercato regolamentato, donde mantengono le loro caratteristiche e diritti anche dopo la quotazione (art. 127- sexies, comma 2, TUF); vuoi perché si tratta di società quotate risultanti dalla fusione o dalla scissione di società che hanno emesso azioni a voto plurimo, donde tali società possono emettere azioni a voto plurimo con le medesime caratteristiche e diritti di quelle già emesse al ricorrere di determinate circostanze e, salvo che lo statuto disponga diversamente, al fine di preservare il rapporto tra le diverse categorie di azioni in caso di aumento di capitale o di operazioni straordinarie, quali fusioni e scissioni.

Nulla impedisce, insomma, all’autonomia statutaria delle società quotate italiane di costruire l’“abito su misura” per mantenere saldo il controllo della società e di farlo sfruttando sapientemente le innumerevoli chance (ivi compresa l’emissione di azioni a voto plurimo da parte di quotande società) già offerte dall’ordinamento italiano, che non è secondo a nessuno quanto a possibilità di ricorso ai c.d. Control Enhanging Mechanism (CEMs), donde ci si dovrebbe domandare semmai che cosa resta nel nostro ordinamento della libera circolazione dei capitali.

Vero è che la ragione per la quale importanti quotate italiane hanno spostato e continuano a spostare la sede legale in ordinamenti come l’Olanda non sta, come pare evidente, nel voto plurimo o nel voto maggiorato, già solo perché le migrazioni delle imprese italiane verso l’Olanda non si sono arrestate nonostante l’introduzione in Italia nel voto plurimo e del voto maggiorato. Sta, piuttosto, nell’illusione che la comparazione giuridica possa farsi per istituti, anziché per funzioni, come se fosse materia di “anatomia” piuttosto che di “fisiologia”, e sta probabilmente anche nell’incertezza del diritto generata dal continuo e imprevedibile mutare delle regole nel nostro ordinamento, nella burocrazia e nelle lungaggini della giustizia, ingolfata da noi come in nessun altro ordinamento.

 

 

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Prof. Avv. Laura Schiuma, Of Counsel
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